Lo ripeto e lo firmo: quello dei The Kolors Frida (mai mai mai) sarà il brano dell’estate.
Il pezzo, la vera botta di allegria Sanremese (provate a togliere la vecchietta dagli Stato Sociale e poi ditemi) può sembrare solo un ritornello di quattro minuti, ma se lo si ascolta anche solo un paio di volte ci si rende contro delle mille sfumature e attenzioni che ci sono. E sono quelle che ri rimangono dentro, come il suono gutturale della voce di Stash (a proposito fateci sapere quale elisir lo ha trasformato così, perché sta bissando il successo che fu dei vari John Taylor, Simone Le Bon & Co. Maneskin lontani mille miglia) e di alcune strofe imbevute di echi che hanno l’effetto di far venire la pelle d’oca. E poi i tamburi, gli archi, che come in una ricetta danno il dolce e il salato, ovvero la comunione perfetta.
Io sono sicura che del pubblico sanremese non tutti capiranno queste sfumature, così come chi va in un ristorante e assaggia per la prima volta un piatto di alta cucina, ma tutti la ascolteranno, perché non sanno di cosa è fatto quel piatto strano, ma il sapore ti esplode in bocca e ti lascia il desiderio di mangiarne ancora. Hanno fatto bene a cantare in Italiano, è stata una mossa astuta e Sanremo è vetrina irrinunciabile, ma questi ragazzi sono destinati a ben altro. Il loro è un sapore internazionale. Non sono solo solo belle facce ma sono una band di cervello e cuore. Come i veri talenti o ci si nasce o non ci si può diventare, e loro (ma soprattutto Stash) con questo fuoco c’è nato e si vede. In quello che fa e nella performance sanremese, c’è estro, c’è amore, c’è ricerca, c’è il gusto di penetrare a fondo, di far vibrare l’anima. C’è la caparbia volontà di scolpire ad ogni colpo di percussioni, le singole parole del testo, quasi a volerle tatuarle sulla pelle di chi ascolta. Stash, sa concedersi quasi fisicamente a dispetto di una timidezza e di una ricerca della perfezione che è palese e viene tradita dall’incessante movimento di mani e gambe. Meno male “il ciuffo” sua coperta di Linus. Sul palco sembra quasi che non siano loro a trasformarsi, ma è la musica che hanno creato che si impossessa di loro, e viene fuori potente trasformandoli e facendo sembrare, che quella sarà l’ultima strofa che suonano, e le ultime parole che pronunciano.
C’è ancora in loro la rabbia primordiale di chi vuole arrivare a tutti i costi, di chi brama il palco, di chi vive per la musica, e la fa prima sua come un amante, per poi donarla a tutti come una rockstar.
Questo a mio parere è essere un artista. Ma loro non si fermano qui. Scegliere un colore di capelli, la foggia di una giacca, dice molto di quello che si è e che si vuole passare. Tutto questo accompagna come fosse la cornice di un quadro splendido e armonico, la totalità del pensiero dei The Kolors, e questo fa la differenza tra cantanti e un idoli.
Loro sono qualcosa che tu vedi e non sai perché ma la vuoi e ti attrae e ti ci rispecchi. Io ne ho incontrati tanti e so riconoscere chi il successo ce l’ha dentro, e può fare qualsiasi cosa, ma non ne può inevitabilmente sfuggire. Ma questo non è destino è arte. E c’è chi ancora le chiamerà solo canzonette.